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Lunar è un progetto interamente individuale.

Nasce dalla passione per la composizione dell’autore, che scopre l’opportunità espressiva del Mac con i suoni Roland associato alla tastiera Midi.

Marcello Meconi sviluppa Lunar in notturna, proseguendo un percorso di ricerca sonora iniziato da giovanissimo con alcuni strumenti acustici.

 

Affascinato prima dalla musica solitaria ed onirica di Mike Oldfield, poi dalla decadenza di Brian Eno. Dalla potenza emozionale dei Pink Floyd e dei Porcupine Tree. Attratto dalle atmosfere oscure del trip hop e di quelle più malinconiche di Vangelis. Dalla sperimentazione della prima musica elettronica ma anche dal progressive degli Ozric Tentacles.

Lunar non prescinde da questi ascolti, ma nei suoi sei anni di gestazione si traccia il proprio solco in un ambito di elettronica e psichedelia dal gusto vintage.

 

Nell’avanzare delle 8 tracce Lunar si inoltra verso terreni più sperimentali, e nel contempo più acustici. “Out” vede l’intervento live di basso, chitarra, batteria e flauto traverso. Dal culmine della complessità strutturale si passa alla chiusura minimalista con “Return”, protagonista un pianoforte a coda.

Lunar

Nell’agenzia alla Barona gli intervalli si susseguivano stanchi. 

Niente negozi, niente locali. Quando il tempo non invitava a restare fuori si temporeggiava al computer in attesa della ripresa alle due.

In una di queste pause iniziai ad esplorare Garage Band: il mio lavoro di graphic designer mi riserva il piacere di usare il Mac, e con esso l’applicazione per la composizione musicale che è parte del software nativo.

“Guarda che è una droga!”, di questo mi avvertì il mio collega Simone, già avvezzo all’uso per il suo piacere sperimentale e grande consumatore compulsivo di musica. Simone in quel periodo mi faceva ascoltare gruppi nuovi di varia provenienza, alla media di uno nuovo al giorno.

Dall’altra parte (altra fortuna), avevo un altro collega, Andrea, ex DJ, che in tutt’altro ambiente anche lui ebbe il merito di farmi conoscere nuova musica e stimoli per produrla: si divertiva a mixare brani e suoni in Garage Band.

E una droga diventò subito, visto che provando a giocare con i suoni mi si aprii un mondo da esplorare, nel quale poteva convogliare il mio antico interesse per la composizione. 

Dalla prima adolescenza mi divertivo a creare assonanze con la chitarra, che usavo con la tecnica del fingerpicking per creare atmosfere che mi facevano viaggiare oltre le sette note.

Una lunga pausa forzata dovuta agli eventi della vita per ritrovare la stessa magia, ampliata, grazie al software di un computer. Da lì è partita la mia sfida: lo scultore estrae dalla materia informe l’immagine che persegue ed io, nel mio mondo, cerco di estrarre il freddo dei circuiti e di instillare nel programma l’emozione dello strumento musicale (non a caso il primo brano dell’album è completamente realizzato a computer e l’ultimo quasi completamente acustico).

Ho visto subito che la cosa mi piaceva e che riuscivo ad ottenere dei risultati. Ho usato uno strumento software che mi affascinava e sopra questo ho cominciato a costruire l’edificio Lunar.

Qualche mese dopo avevo tra le mani un brano quasi completo. Mancava solo una conclusione, ed ero alla ricerca di un suono che fosse adatto alla chiusura.

In uno di questi fine-intervallo stavo riascoltando Lunar in cuffia, dopo le ultime modifiche della notte precedente, in cerca di un’ispirazione. In quel momento, nel corridoio davanti a me, una collega fece partire alcune fotocopie. Alla fine delle stampate la fotocopiatrice produsse un triplice suono di avviso, acuto, simile a quello di una radiosveglia. La traccia in esecuzione era alle ultime battute e il suono, magicamente, si incastrò alla perfezione: era il finale di Lunar.

Quella notte passai alcune ore “in cuffia” finchè riuscii a ricreare lo stesso effetto sonoro.

La mattina dopo arrivai un po’ prima al lavoro, misi le cuffie, risentii il tutto e salvai l’ultima piccola modifica di missaggio: era il 20 luglio 2009. Lunar era conclusa a 40 anni esatti dallo sbarco sulla Luna.

Era il mio primo brano. Andai avanti e compresi che Lunar poteva far parte di un progetto più esteso, ma nei cinque anni di lavoro che seguirono quella prima traccia fu l’unica che non modificai più: la data era quella giusta, e suonava già come doveva.

 

Darkmatter

Nel mio immaginario vedevo Lunar come una partenza: non solo la prima traccia, ma anche il punto più vicino al presente e alla Terra. Una citazione storica (il primo sbarco sulla Luna) per andare oltre, sempre più lontano. Lo pseudo-astronauta che si allontana insieme alla ricerca di suoni più alieni.

Ad un certo punto Darkmatter, la Materia Oscura. Per questo viaggio il lato più avventuroso è stato prendere un suono della banca dati Roland e modificarne tutti i parametri, fino ad arrivare a qualcosa del tutto diverso. E come per il finale di Blade Runner in fondo arriva la luce: il buio si apre, e per qualche istante ci si riposa in un paesaggio diurno.

 

Floating

Restare sospesi. Il viaggiatore spaziale è nel vuoto e fluttua. La dimensione si estende ovunque intorno e così le possibilità espressive, con l’introduzione di una tastiera midi.

Floating nasce così, dall’improvvisazione al midi inseguendo il fascino del suono espanso.

 

Damcity

Lunar non è propriamente una storia. Però nella successione delle tracce ho seguito l’idea e la suggestione di un ipotetico viaggio: da Lunar a Return. Il protagonista è definito di volta in volta da chi ascolta. Per me il viaggiatore spaziale ha fatto tappa a Damcity: non più nel nulla cosmico ma in una città lontanissima e oscura. Forse oscura solo perché ignota, forse perché ostile.

 

Estate. Tarda notte. Di ritorno dalle vacanze in Sardegna. Il traghetto per Genova, dopo ore di ritardo, finalmente leva gli ormeggi. I bambini si sono già addormentati in cabina.

Prendo il lettore mp3 con le tracce di Lunar, il Kway ed esco sul ponte. Raggiungo la poppa della nave.

Metto in play Damcity, versione quasi definitiva. Guardo il mare sotto di me, illuminato dalle luci del ponte. Più oltre, il buio indistinto dell’acqua appena passata fino ad incontrare le luci della costa che si allontana.

Oltre lo scafo lo spostamento d’acqua è possente e dove finisce il metallo c’è un abisso gorgogliante. Da qui si avverte tutta l’enorme massa del mezzo su cui mi trovo. Immaginare di trovarsi lì, sotto l’acqua, e vederselo passare sopra è un gioco impressionante.

Non sono tra le stelle, non vedo un pianeta dall’alto. Ma già così una piccola dose di immenso c’è e si avverte tutta.

Damcity finisce e l’ascolto mi convince: va aggiustato ancora qualcosa, ma ha superato questa prova.

 

Transfer

Un trasferimento veloce. Verso una nuova distanza.

Preso il nuovo Macbook, installato Logic Pro, inizio ad esplorare i nuovi suoni a disposizione.

Mi soffermo su un basso arpeggiato. Il suono ciclico suggerisce lo spostamento. Ci lavoro. Transfer nasce spontaneo, con facilità. Mi sembra immediato anche l’ascolto. E’ quello che ci vuole ora: un po’ di respirazione prima dell’immersione nelle profondità che ho in serbo per dopo.

 

Inside

Stavo provando dei suoni e mi imbatto in una modulazione penetrante, qualcosa che ricorda il passaggio ad uno stato di coscienza differente, un viaggio nella mente per non dire negli incubi. Voglio usarla come punto di partenza! Da qui improvviso delle note col midi, che vanno avanti per alcuni minuti. In questo modo firmo il mio impegno con la sperimentazione - per me e fino ad ora - più estrema.

Non voglio abbandonare il progetto ma così non funziona tutto.

Devo inquadrare la parte improvvisata, perché ci sono punti che mi convincono molto e non voglio perderli, ma vanno sistemati gli altri punti.

Rimango invischiato in Inside io stesso e per i mesi, anzi, gli anni di sviluppo del progetto Lunar continuo a tornarci su, modificare, alla ricerca dell’equilibrio che ancora non trovo.

Uscire da Inside mi ha impiegato più tempo di tutto il resto. Se non ci fosse stato, Lunar si sarebbe concluso molto prima, pensavo.

Poi ho capito che la continua sperimentazione e ricerca su Inside mi ha permesso collateralmente lo sviluppo di buona metà di tutto il resto. Quindi Inside è stato indispensabile.

Per notti e notti di seguito ho continuato risentire l’inizio di Inside alla ricerca delle modifiche giuste.

A volte ho pensato che non sarei mai riuscito ad ottenere quello che cercavo, che mi ero imbattuto in qualcosa di ingestibile. poi ho cominciato a vedere come uscirne.

Si può dire quindi che ho creduto fortemente in Inside. Mi affascinava anche l’analogia tra la suggestione di ciò che raccontavo in Lunar (entrare in senso mentale trovando un “delirio totale”) e quello che realmente mi accadeva nel procedere con la sua composizione (addentrarmi in un terreno impervio ed ignoto).

 

Out

Inside-Out possono leggersi insieme: Out è la conseguenza di Inside, la risoluzione.

Out ha una genesi meno sofferta, ma per certi versi ancora più sperimentale. E’ il pezzo più suonato dell’album, visto che mi alterno con un buon numero di strumenti acustici: chitarra acustica, basso, batteria, flauto traverso oltre alla solita tastiera midi che è anche il synt in chiave moderna.

 

Return

Si torna a casa. Si guarda indietro. Al proprio punto di partenza. 

Il ritorno è sempre avvolto dalla riflessione, da una dose di introspezione e malinconia. Anche se si ritrova ciò che ci è mancato, si lascia sempre qualcos’altro. 

Il nostro uomo potrebbe ora essere seduto su una poltrona e guardare le stelle fuori dal finestrino della navetta, in attesa dell’arrivo. Potrei essere io, in aereo, di ritorno da un anno a Londra. Ma Return non c’era ancora, sarebbe arrivata qualche tempo dopo…

 

Return nasce come Rebirth. Il titolo cambia ma la rinascita c’è in più di una accezione. La parte di piano nasce quasi 20 anni fa suonando il pianoforte che era di mio padre. Registrato a suo tempo in più cassette e video Hi8 e tenuto stretto in attesa di una collocazione. Ripresi il pezzo col midi e lo preparai per la registrazione.

Trovai poi uno studio con un pianoforte a coda a disposizione e registrai la parte in una unica ripresa, nell’arco di una sessione di un’ora.

In chiusura volevo esprimere il concetto di rinascita, inteso anche come continuità: padre, figlio, nipoti.

Presi quindi il carillon di pezza che i bambini avevano nella loro culla per addormentarsi e diedi a quest’ultimo l’incarico di salutare, e con questo rilanciare il sasso di una nuova partenza. 

Rebirth. Return.

 

 

 

 

 

 

 

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